La doppia faccia di Sanremo : arte e controllo politico

Diodato remporte la 70° édition du Festival de Sanremo. Photo : Teatro Ariston

Sulla Riviera dei Fiori, i gerani sgargianti rivaleggiano ormai con i neon del Teatro Ariston. Dall’11 al 15 febbraio, Sanremo ospita la sua 75ª edizione, un vero e proprio monumento della cultura italiana che quest’anno oscilla tra tradizioni immutabili e turbolenze politiche. Mentre le strade di via Matteotti si animano di concerti improvvisati e Piazza Colombo si trasforma in un enorme palcoscenico effimero, l’atmosfera elettrizzante nasconde in realtà una battaglia ideologica di vasta portata.

Un’eredità in bianco e nero

Il Festival, nato nel 1951, ha sempre rappresentato lo specchio delle contraddizioni italiane. Nel 1967, mentre Dalida cantava Ciao Amore Ciao, Luigi Tenco si suicidava in una camera d’albergo, scrivendo nella storia del Festival una leggenda insieme tragica e mitica. Oggi, alcuni denunciano un ritorno a un’era in bianco e nero in cui la politica, in modo insidioso, si insinua nelle melodie popolari.

La presidenza di Giorgia Meloni aleggia sulla kermesse

Il clima di tensione si è acuito da quando la presidenza culturale si tinge dell’impronta dell’attuale governo. Accusato dai suoi detrattori di “soffocare l’indipendenza culturale”, il governo di Giorgia Meloni ha operato una svolta sostituendo Amadeus – il presentatore che aveva ridato lustro a Sanremo lanciando, tra gli altri, i Maneskin sulla scena internazionale – con Carlo Conti, un volto familiare il cui discorso si vuole ora “familiare” e apolitico. “Si parlerà di valori universali”, ha dichiarato Conti, suscitando scetticismo e derisione dietro le quinte. Questa scelta, tutt’altro che casuale, si inserisce in una strategia di ricomposizione ideologica delle istituzioni culturali, una manovra che mira a riportare il discorso su “valori tradizionali” escludendo, come effetto collaterale, i dibattiti sociali più conflittuali.

Come riporta il giornale Jacobin, l’episodio più eclatante si è verificato a febbraio, quando i tentativi falliti dei dirigenti televisivi di mettere a tacere i cantanti filo-palestinesi hanno portato a una ondata di manifestazioni e sit-in davanti alla sede della RAI in tutta Italia. A Napoli, Bologna e Torino, la polizia antisommossa ha picchiato i manifestanti che cercavano di appendere striscioni filo-palestinesi. Durante il festival di Sanremo, un evento nazionale che attira oltre il 60% degli spettatori, due candidati, Ghali e Dargen D’Amico, hanno presentato canzoni sulla pace e sulla morte degli immigrati che attraversano il Mediterraneo.

Hanno espresso messaggi politici a favore di un cessate il fuoco a Gaza, ma non sono riusciti a pronunciare le parole “Palestina” o “Israele”. Ghali, un cantante di origine tunisina, è comunque riuscito a dire sul palco “Fermate il genocidio”. Questo ha provocato l’ira dell’ambasciatore israeliano in Italia, Alon Bar, che ha condannato un uso “scandaloso” del festival per diffondere un “messaggio di odio”. Il giorno seguente, l’amministratore delegato della RAI, Roberto Sergio, ha pubblicato un comunicato stampa prendendo le distanze dalla posizione politica dei cantanti e ribadendo il sostegno incondizionato a Israele. “Ogni giorno, i nostri notiziari e i nostri programmi raccontano la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas, e continueranno a farlo”, si legge nel comunicato.

Questo comunicato è stato letto durante un’edizione speciale di Sanremo di Domenica In, un talk show molto seguito e condotto da Mara Venier. La presentatrice di lunga data sembrava a disagio di fronte ai messaggi politici di Ghali e Dargen D’Amico, e mentre difendeva timidamente il diritto di parola di quest’ultimo, lo ha anche gentilmente fatto uscire di scena. In una registrazione audio fuori campo, si sente dire agli esperti che hanno posto domande politiche ai cantanti di smetterla. “È una festa, e non abbiamo tempo di discutere di un argomento del genere”, aggiungendo “Mi mettete nei guai”.

La Rai, o “TeleMeloni”?

Il controllo del potere sull’audiovisivo pubblico, e in particolare sulla RAI, è diventato un tema ricorrente delle critiche. Dal 2022, il governo Meloni avrebbe nominato fedeli alla guida di numerose istituzioni culturali – dal Teatro di Roma alla Biennale di Venezia – trasformando così la RAI (Radiotelevisione Italiana) in una vera e propria tribuna di un discorso strettamente controllato. Come riporta The Guardian, in un clima di censura strisciante, i testi di rapper come Fedez o Tony Effe, noti per le loro posizioni taglienti, sono ora strettamente monitorati. Il caso emblematico di Ghali, il cui appello “Stop al genocidio” è stato rapidamente edulcorato durante le trasmissioni, ne è un triste esempio.

Più che un semplice aggiustamento della linea editoriale, questa censura avviene in un contesto in cui la politica è al centro dell’opinione pubblica. Secondo Jacobin, il governo cerca così di evitare che il Festival diventi il teatro di un dibattito pubblico troppo acceso su temi come l’immigrazione o la guerra – argomenti che potrebbero risvegliare passioni politiche da cui preferisce tenersi alla larga. Il termine TeleMeloni non è quindi solo un soprannome scherzoso, ma il riflesso di una tendenza a concentrare sulla scena mediatica un discorso ufficiale, a discapito di una diversità di opinioni.

Le manovre del potere e l’strumentalizzazione culturale

Oltre alla semplice censura, è necessario decifrare le manovre politiche che si svolgono dietro le quinte. La scelta di Carlo Conti non è casuale: si inserisce in una strategia globale di ricomposizione delle istituzioni culturali da parte del governo. Come sottolinea Le Figaro, effettuando nomine allineate a una visione conservatrice e “familiare”, Meloni cerca di riscrivere il racconto nazionale. L’ex ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, aveva lui stesso elogiato progetti di esposizione su Tolkien e strumentalizzato Dante per costruire “il padre del pensiero di destra”. In questo modo, l’apparato statale sembra voler cancellare le tracce di un passato contestatario per imporre una nuova visione del mondo, quella che si nutre di valori tradizionali e anti-progressisti.

Queste interventi non si limitano alle alte sfere amministrative: si ripercuotono anche sulla programmazione dei media pubblici. Sempre secondo Le Figaro, i giornalisti e i presentatori, spesso costretti all’auto-censura, vedono la loro libertà di espressione ridotta a zero da direttive politiche implicite. Numerosi esperti denunciano così l’instaurazione di un vero e proprio “blocco ideologico” sui contenuti trasmessi, una manovra che mira a presentare un’immagine dell’Italia priva di conflitti sociali maggiori.

L’eco delle voci dissidenti

Di fronte a questo controllo dell’informazione, alcuni artisti e intellettuali cercano comunque di far sentire la loro voce. Figure emblematiche come Achille Lauro, sostenitore di un’estetica queer e provocatoria, o Noemi, che moltiplica le apparizioni per difendere un’Italia plurale, rappresentano un’alternativa a questa omologazione del discorso culturale. Incarnano la resistenza discreta ma tenace di un settore artistico che rifiuta di lasciarsi rinchiudere nelle caselle di un mercato forzato da logiche commerciali e politiche.

Questa lotta non si combatte solo sul piano musicale, ma si estende a tutto il panorama mediatico italiano, dove giornalisti coraggiosi denunciano pubblicamente la deriva di un sistema che tende a mettere a tacere le voci critiche. Inchieste pubblicate su quotidiani come Il Messaggero rivelano, ad esempio, le pressioni esercitate sulla redazione della RAI per minimizzare i temi sensibili, che si tratti di immigrazione, violenze poliziesche o discriminazioni. Queste rivelazioni testimoniano una battaglia dell’informazione, in cui ogni parola diventa un enjeu politico maggiore.

Tra tradizione e modernità: il doppio volto di Sanremo

Sanremo è sempre stato lo specchio di un’Italia in continua evoluzione. Un tempo spazio di contestazione e rinnovamento, il Festival è oggi il teatro di un conflitto tra due visioni del mondo. Da un lato, ci sono quelli che vogliono preservare l’eredità dei grandi classici – le melodie senza tempo che, come Ciao Amore Ciao o Zingara, hanno segnato generazioni. Dall’altro, una gioventù alla ricerca di autenticità, che non teme di affrontare temi contemporanei, a volte conflittuali, e che vede nella musica un mezzo per esprimere le proprie angosce e speranze.

In questo contesto, come indica Le Figaro, la scelta di proporre un’edizione familiare sembra essere un tentativo di neutralizzare questi dibattiti rinchiudendo il Festival in una sfera di convenienza. Questa strategia di disimpegno, che predica un’introspezione del micromondo, potrebbe essere interpretata come una volontà di distogliere l’attenzione dai grandi temi sociali. Perché, insistendo su argomenti apparentemente innocui – la vita familiare, le relazioni intime, le emozioni personali – si rischia di mettere a tacere le vere battaglie che agitano l’Italia di oggi. La domanda è quindi: si può davvero parlare di libertà artistica quando la linea di condotta è tracciata in anticipo da un potere che non vuole essere disturbato dalla contestazione?

Uno specchio che riflette solo un’immagine edulcorata

Alla fine, Sanremo 2025 potrebbe rivelarsi uno specchio deformante, che riflette un’Italia che ha scelto di guardare altrove. Sotto la vernice scintillante delle scenografie e la coreografia impeccabile delle esibizioni, si nasconde la triste realtà di uno spazio pubblico controllato, dove le dissidenze sono soffocate e l’ideologia ufficiale si impone senza appello. Il Festival, un tempo luogo di libertà e creatività, si trova oggi sotto l’egida di logiche di mercato e strumenti di propaganda che favoriscono un’omologazione del discorso.

Per molti, non si tratta semplicemente di un cambio di scenario o di un’evoluzione del formato: è una vera e propria regressione democratica che si sta verificando nel campo culturale. Sacrificando la pluralità delle voci sull’altare della “sicurezza sociale” dell’intrattenimento, si rischia di perdere ciò che rende ricco un dibattito pubblico autentico. La storia di Sanremo è quella di un impegno costante, di un grido a volte rauco contro l’ordine stabilito – e sarebbe tragico che, per paura dei contraccolpi, questa eredità si dissolva in una grigia apatia.

Verso un Festival reinventato o asfissiato dalla conformità?

Mentre i riflettori si accendono e le prime note risuonano nella sala del Teatro Ariston, la domanda rimane sospesa: Sanremo può ancora essere il crogiolo di una rivoluzione culturale, o è destinato a diventare il teatro di un conformismo imposto da logiche politiche e commerciali soffocanti? Tra le manovre di un governo che usa il suo controllo sulle istituzioni e la censura strisciante che rode la libertà di espressione, il Festival si trova a un bivio.

Certo, la presenza di talenti emergenti nella nuova categoria Nuove Proposte offre un barlume di speranza. Questi artisti, portatori di un soffio nuovo, potrebbero, con la loro audacia e creatività, ridare al Festival il suo ruolo di piattaforma contestataria. Ma questo barlume deve essere ascoltato in mezzo a un frastuono organizzato che tende a far scomparire ogni dissidenza.

Alla fine, Sanremo 2025 si erge come un campo di battaglia culturale in cui si giocano sfide di grande portata: il futuro di una cultura popolare, la lotta per la libertà di espressione e la resistenza a un potere che, con le sue manovre, cerca di modellare la società a sua immagine. Solo il futuro dirà se questo Festival, tra tradizione e modernità, saprà reinventarsi per tornare a essere il vibrante riflesso di un’Italia libera e plurale, o se sprofonderà nell’indifferenza, prigioniero di un sistema che lascia poco spazio alle voci discordanti.

Così, dietro le luci e i riflettori, si nasconde una battaglia di idee. Tra la censura orchestrata da un potere che non vuole opposizioni e la flebile speranza di una gioventù che aspira a rivoluzioni artistiche, Sanremo 2025 ci invita a guardare oltre lo spettacolo per interrogare i fondamenti stessi della nostra società.

Ogni nota, ogni parola, è ormai carica di significato in un contesto in cui la cultura è tanto intrattenimento quanto una questione politica cruciale. È in questo tumulto che si delinea il destino di Sanremo, oscillando tra l’ombra di un passato contestatario e la promessa di un rinnovamento liberatore. Solo il tempo dirà se il Festival riuscirà a riconquistare il suo ruolo di catalizzatore della libertà o se rimarrà appannaggio di uno status quo imposto dal potere.