Più volte è capitato di vedere una raffigurazione di Giuseppe Garibaldi accompagnata dalla frase “Né italiano, né francese, ma nizzardo”, stampata su magliette, adesivi o utilizzata come foto profilo sui social. Ma da dove proviene questa citazione?
Era il 4 luglio 1878 quando, dall’isola di Caprera, la sua ultima dimora, Garibaldi mise per iscritto il suo profondo dolore emotivo. È noto che, dopo la cessione forzata di Nizza e della Savoia alla Francia, Garibaldi non tornò mai più nella sua città natale e, nei suoi scritti e discorsi successivi, la menzionò soltanto di rado. Garibaldi non era certo famoso per la sua discrezione: la sua “incontinenza verbale”, il suo tardivo abbraccio alla Monarchia e la totale mancanza di diplomazia mandavano su tutte le furie le élite governative torinesi, dove non mancavano i suoi detrattori.

Così lo tennero ben lontano dalle trattative con Napoleone III, lo allontanarono da Torino e lo colmarono di onori puramente formali che, va detto, non gli dispiacquero affatto. Nel frattempo, però, il nostro eroe comprese solo troppo tardi che i francesi avevano puntato gli occhi sulla Savoia e su Nizza.
E della Savoia? Beh, non è che gli stesse troppo a cuore. Come tanti politici italiani dell’epoca, la considerava già una terra francese e non si fece troppi problemi a sposare l’idea della cessione. Ben diversa era la sua posizione su Nizza, che considerava indissolubilmente legata a Casa Savoia, alla quale si era liberamente unita nel 1388 attraverso la dedizione. La sua fiducia nel mantenimento di questo legame fu confermata dal gesto simbolico di trasferire lì i resti mortali della sua amata Anita, nel novembre del 1859.
Poche settimane prima dell’annessione, Garibaldi era ancora all’oscuro delle intenzioni del governo, che agiva in gran segreto per firmare il trattato di cessione. Nel frattempo, però, attraverso articoli sui giornali e incontri pubblici, fece sentire forte la sua voce nel territorio nizzardo.
Come riportato nel libro La cessione di Nizza e Savoia alla Francia di Gustavo Mola di Nomaglio, Garibaldi arrivò persino a considerare l’idea di un’occupazione militare della città. Tuttavia, rinunciò rapidamente al progetto, consapevole del fatto che le truppe francesi, già stanziate a Nizza ancor prima del plebiscito, erano di gran lunga superiori in numero.
Quando Garibaldi si rese conto di ciò che stava accadendo, il 2 aprile, era ormai troppo tardi. Il destino di Nizza era stato segnato e nulla avrebbe potuto fermare l’annessione. La sessione parlamentare si aprì, ma Garibaldi venne prontamente messo a tacere: gli fu impedito di parlare con la scusa che, a causa della recente morte del presidente della Camera, la legislatura non poteva ancora considerarsi formalmente costituita. Una giustificazione un po’ tirata per i capelli, che sembrò più una mossa astuta per imbavagliarlo.
Ma Garibaldi non era tipo da lasciarsi scoraggiare. Il 12 aprile 1860, finalmente, ebbe modo di farsi sentire e, neanche a dirlo, non si lasciò sfuggire l’occasione. Con un discorso infuocato che sarebbe passato alla storia, prese la parola al Parlamento Subalpino di Torino e condannò pubblicamente la cessione di Nizza alla Francia:
«La cessione di Nizza a Napoleone III è contraria al diritto delle genti (…) la presenza di numerosi agenti di polizia (francesi), le lusinghe, le minacce senza risparmio esercitate su quelle povere popolazioni (…) l’assenza da Nizza di moltissimi cittadini nostri, obbligati di abbandonarla per motivi suddetti; la precipitazione ed il modo con cui si chiede il voto di quella popolazione, tutte queste circostanze tolgono al suffragio universale il suo vero carattere di libertà (…) Ognuno che fu a Nizza conosce il castello: è il punto culminante della nostra città; tutti i viaggiatori si recano a visitarlo; colà non v’ha rovina che non sia stata cagionata dalle guerre dei Nizzardi contro i Francesi».

Un’affermazione che, nonostante la partita fosse ormai persa, passerà alla storia come uno dei più alti esempi di resistenza e di lotta per l’identità nizzarda. Un grido di dolore, potremmo dire, che Garibaldi scolpì a colpi di parole nella storia dei discorsi parlamentari italiani, non risparmiando nessuno: né il presidente del Consiglio in carica, Cavour, né tantomeno il Re.
E Cavour? Non si fece certo attendere. Con la sua proverbiale empatia e il suo innegabile tatto, rispose a Garibaldi pochi giorni dopo, il 18 aprile, con queste affettuose parole:
“Io ho creduto compiere un dovere doloroso, il più doloroso che abbia compiuto in vita mia, consigliando al Re e proponendo al Parlamento di approvare la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Al dolore che ho provato io, posso comprendere quelli che ha dovuto provare l’onorevole generale Garibaldi, e se egli non mi perdona questo fatto, io non gliene faccio appunto.”
A seguito della cessione di Nizza alla Francia, il generale Garibaldi, ferito nell’orgoglio e tormentato da un senso di tradimento mai sopito, non si risparmiò nel far sentire la sua voce. Nel 1865, in un momento di evidente esasperazione, scrisse una lettera dal tono infuocato, rivolta a un gruppo di esuli nizzardi stabilitisi a Genova.

Con parole che trasudavano dolore e indignazione, Garibaldi riversò tutto il suo rancore, la sua frustrazione e, perché no, anche un pizzico di teatralità epistolare. Una risposta che sembra quasi un grido lacerante, un ultimo disperato appello per un passato ormai irrecuperabile, ma che suona anche come un rimprovero severo a chi, forse, non condivideva abbastanza intensamente la sua sofferenza. E così, con penna e inchiostro, il generale riversò tutto il peso della sua anima ferita:
“Miei cari compatrioti,
dal fondo dell’anima mia, vi mando una parola, un saluto di affetto! Il vostro indirizzo mi esprime il fermo vostro volere di rivendicare alla nostra Nizza il posto suo nella grande famiglia italiana. Con un passo indegno, essa fu venduta, e la sua vendita vergognosamente fu consentita da gente, che altro mandato non aveva che quello di tutelarne i diritti, gli interessi, e di difenderne la nazionalità. Speriamo vicino il giorno, in cui potremo cancellare l’onta che pochi segnarono sulla fronte d’Italia. Credetemi per la Vita. Vostro G. Garibaldi.”
Questi passaggi richiamano quanto evidenziato all’inizio dell’articolo, ovvero le parole di Garibaldi sul suo senso di appartenenza a Nizza, più che all’Italia o alla Francia. Come ben riportato nel libro La cessione di Nizza e Savoia alla Francia, è chiaramente espresso il sentimento del nostro eroe, che negli anni successivi alla perdita di questi territori continuò a coltivare un profondo astio verso tutti coloro che avevano preso parte al “baratto” tra Nizza e le nuove terre italiane, ovvero la Toscana e l’Emilia-Romagna. A testimonianza di questo rancore, spicca un ironico e al contempo pungente scritto del 4 luglio 1878 redatto a Caprera, oggi conservato nell’archivio garibaldino del Museo del Risorgimento di Milano. Un documento che, con il suo tono caustico, ci restituisce il ritratto di un Garibaldi tutt’altro che disposto a dimenticare.

“Io sono Nizzardo! Quindi non Italiano né Francese. Non sono italiano poiché il più grande dei grandi uomini italiani del secolo decimonono di cui il grande titolo di gloria è quello di aver barattato due province per una ha decretato Nizza francese e quel decreto fu sancito, consacrato da un voto del parlamento sardo con una maggioranza di 229 rappresentanti della nazione. Non sono francese giacché non riconosco valido né legale il plebiscito promosso da alcuni sgherri di Bandiguet [“Badinguet” soprannome di Napoleone III], l’imperatore della menzogna che ottenne la maggioranza a Nizza come la ottenne in Francia con 7 milioni di voti a lui ottenuti dai preti tra le ignoranti popolazioni delle campagne. Sono quindi Nizzardo e quando la giustizia nel mondo non sarà più una vana parola l’indipendenza del mio paese nativo sarà riconosciuta ed invalidata la vendita di Nizza fatta da Casa Savoia a cui Nizza si aggrego ma non si vendette. Essa si aggregò alla Savoia per non cadere sotto l’esosa dominazione dei re di Francia che per sottometterla avevan contratto alleanza coi Turchi guidati dal pirata Barbarossa e per virtù dei suoi cittadini guidati dall’eroica Segurana debellata l’oscena alleanza”.
Garibaldi, con le sue parole infuocate e il suo spirito indomito, ci ha lasciato una testimonianza tanto drammatica quanto unica: quella di un uomo che, pur avendo contribuito a creare l’Italia con sangue, passione e amore, si ritrovò tradito dai giochi politici di cui fu, a sua volta, vittima. “Né italiano, né francese, ma nizzardo”: questa frase, che oggi aleggia nei gruppi identitari della città di Nizza, non è solo uno slogan, ma un grido che attraversa il tempo, un’eco di un’identità che Garibaldi volle scolpire nella memoria collettiva.

Questa sua esclamazione, scandita dalla rabbia e dal rancore della storia, non deve essere mal interpretata dai collettivi italiani o nizzardi: gli uni, sostenitori di un’italianità affermata da Garibaldi, e gli altri, che vedono in lui un simbolo dell’appartenenza di Nizza alla città. Si tratta di una logica più complessa, quella del prendere o lasciare, come scrisse Camillo Cavour quando gli fu negato l’incarico di ministro da parte del presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio nel 1849. Fuggito quindi da Torino a Vercelli, Cavour scrisse: “Almeno li vivrò come se quella puttana d’Italia non esistesse”. Si tratta di un’espressione di grande rabbia, che porta la persona a distaccarsi dal proprio operato, come se volesse minimizzare o esorcizzare le proprie scelte, rifugiandosi in una sorta di rassegnazione. Questo atteggiamento, presente anche nelle parole di Cavour, è il segno di una frustrazione profonda, che spesso accompagna momenti di difficoltà e di disillusione, e che può rendere difficile affrontare le proprie decisioni con la giusta prospettiva. Un altro elemento cruciale che dimostra come l’identità nizzarda fosse comunque legata a una realtà italiana, nonostante la rabbia di Garibaldi, si trova in una lettera scritta dallo stesso a Eugenio Lavagna, un altro nizzardo, in cui affermava: “Negare l’italianità di Nizza è come negare la luce del sole”. In queste parole, Garibaldi non nega il legame di Nizza con l’Italia, ma condanna piuttosto l’istituzione di una nuova Italia che, secondo lui, aveva tradito la sua terra, cedendola alla Francia. Il suo risentimento non era verso l’Italia in sé, ma contro quelli che considerava i responsabili di una cessione ingiusta, coloro che avevano permesso che Nizza fosse sottratta all’Italia e venduta alla Francia.

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